19 febbraio 2014

Nonostante fosse inverno inoltrato l'aria era calda come quando la primavera si affaccia alla Terra.
Attendevo nella notte: muscoli tesi, volto contratto, pensieri accalcati.
"Ti aspetto, non preoccuparti. Muoviti, però vai piano."

Il nodo in gola del pianto che non usciva. 
Ancora 15 minuti che sembravano ore.
Glielo avrei detto subito, senza sconti. Quel dolore puro.
Dolore che in altre forme, in altri mondi possibili, avevamo condiviso in passato.
Gli gettai le braccia al collo appena lo vidi arrivare. Quelle braccia: l'unico luogo al mondo in cui era giusto essere in quel momento.
(La forma delle sue mani, la consistenza dei suoi occhi sorridenti l'unica casa della mia notte).

"Sono arrivato. Sono qui, te lo avevo detto che sarei arrivato. Eccomi."
"Sì, sei qui ma andiamo a casa."
"Che succede?"
"Andiamo a casa."

Nel buio della camera da letto sembrava che il tempo si fosse fermato, il tempo che non concedeva sollievo. I suoi occhi nei miei come mai prima d'ora.
Glielo dissi con voce tremante, incredula delle parole che mi stavano uscendo dalla gola. Un abbraccio soffocato.

Quando ci mettemmo sotto le coperte non riuscivo a trovare pace.
Le ciglia dei miei occhi battevano nel buio implorando un sonno che non arrivava. Nel silenzio capiva (aveva sempre capito tutto) che avevo bisogno di trovare il delicato equilibrio a cui segue il riposo, la pace, la calma. Ma da sola non riuscivo.
Nel buio iniziò a cullare le mie braccia, il mio viso,  la mia schiena.
"Addormentati così, non preoccuparti per me."

E così chiusi gli occhi, immersa in una stretta dolcissima.
La ninna nanna più bella da quando sono piccola.
La ninna nanna più bella che io ricordi.
L'amore più forte da tempo immutato.


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