Fine ottobre Firenze. Piove.
Sto andando verso il Museo di storia della scienza.
C'è il direttore che ci aspetta per progettare un laboratorio per bambini.
Ci accoglie sorridendo ed entriamo nel cuore del museo tra astrolabi e carte geografiche, mappamondi e telescopi.
Ci fa immaginare come doveva essere difficile orientarsi nel mezzo del mare per un marinaio del Cinquecento.
Con le stelle, il notturlabio, la bussola, con le speranze di trovare mondi nuovi, con le preoccupazioni di non incagliarsi nelle secche e di non sbattere contro gli scogli.
Diluvia fuori. Dalle finestre vedo l'Arno. Mi distraggo.
Chissà com'era nel '66 qui a Firenze alla fine di ottobre.
Pioveva così forte... il problema è che non smetteva più.
Entriamo nella sala dei cannocchiali e lo vedo davanti a me.
Il cannocchiale di Galileo.
In mente subito la fotografia in bianco e nero della direttrice del Museo nel '66 con gli stivali infangati fino al ginocchio, sorridente e stanca, e quel cannocchiale in braccio, portato in salvo dal fango e dall'acqua.
E' grazie a lei che i bambini schiacciano il naso sulle vetrine per vederlo. E' grazie a lei che abbiamo ancora testimonianza di quanto l'uomo, con la sola forza dell'intelligenza e della curiosità, riesca a pensare e immaginare.
Lo chiedo al direttore. “E' quello vero? Quello dell'alluvione?”
“Sì, è lui.”
Sono commossa. Pateticamente commossa.
Ma ora è così, e Firenze la vedo in un altro modo, nel tempo in cui il mondo teneva il fiato sospeso per i libri delle biblioteche, i documenti degli archivi e le tele dei musei travolti dall'acqua.
Quando il mondo si chiedeva quanta umanità si perdeva nel fango.
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